Giorgio Agamben, Il diritto e la vita
Il diritto e la vita
di Giorgio Agamben
La situazione attuale, in cui la salute degli esseri umani è diventata la posta in gioco nel diritto e nella politica, offre l’occasione di riflettere sui corretti rapporti che devono intercorrere fra il diritto e la vita. Un grande storico del diritto romano, Yan Thomas, ha mostrato come nella giurisprudenza romana la natura e la vita naturale degli esseri umani non entrano mai come tali nel diritto, ma restano separati da questo e funzionano soltanto come un presupposto fittizio per una determinata situazione giuridica. Così il principio naturale secondo cui tutto è comune a tutti vale solo come una limitazione che esclude dalla sfera della proprietà giuridica l’aria, il mare e le rive, ma la cosa comune a tutti diventa immediatamente una res nullius, che fonda la proprietà del primo che se ne impossessa. Analogamente, la cittadinanza è un dato giuridico imprescrittibile e indisponibile, che, a differenza del domicilium, che dipende dalla residenza fisica in un certo luogo, si acquista attraverso l’origo, la quale non è, però, il fatto naturale della nascita, ma una costruzione giuridica legata al luogo di nascita del padre.
I giuristi del XIX secolo hanno trasformato questo artificio giuridico nello ius sanguinis, in cui, come scrive Yan Thomas, «una mistica del sangue che conduce all’ideologia biologica oggi dominante si sovrappone a quella che era soltanto una costruzione genealogica fittizia». Quel che è avvenuto a partire dai primi decenni del Novecento è che il diritto ha progressivamente teso a includere in sé la vita, a fare di essa il suo oggetto specifico, di volta in volta da tutelare o da escludere. Questa presa in carico della vita da parte del diritto non ha soltanto, come si potrebbe credere, degli aspetti positivi, ma apre invece la via ai rischi più estremi. Come gli studi di Michel Foucault hanno efficacemente mostrato, la biopolitica tende infatti fatalmente a convertirsi in tanatopolitica. Quanto più il diritto comincia a occuparsi esplicitamente della vita biologica dei cittadini come un bene da curare e promuovere, tanto più questo interesse getta immediatamente la sua ombra nell’idea di una vita che, come recita il titolo di un’opera celeberrima pubblicata in Germania nel 1920, «non merita di essere vissuta [lebensunwertes Leben]».
Ogni volta che si determina un valore, si pone infatti necessariamente anche un non-valore e l’altra faccia della protezione della salute è l’esclusione e l’eliminazione di tutto ciò che può condurre alla malattia. Dovrebbe farci attentamente riflettere il fatto che il primo esempio di una legislazione in cui uno Stato si assume programmaticamente la cura della salute dei cittadini è l’eugenetica nazista. Subito dopo l’ascesa al potere, nel luglio 1933, Hitler fece promulgare una legge per proteggere il popolo tedesco dalle malattie ereditarie, che portò alla creazione di speciali commissioni per la salute ereditaria (Erbgesundheitsgerichte) che decisero la sterilizzazione coatta di 400.000 persone. Meno noto è che, ben prima del nazismo, una politica eugenetica, potentemente finanziata dal Carnegie Institute e dalla Rockefeller Foundation, era stata programmata negli Stati Uniti, in particolare in California, e che Hitler si era esplicitamente richiamato a quel modello. Se la salute diventa l’oggetto di una politica statuale trasformata in biopolitica, allora essa cessa di essere qualcosa che riguarda innanzitutto la libera decisione di ciascun individuo e diventa un obbligo da adempiere a qualsiasi prezzo, non importa quanto alto.
Come Yan Thomas ha mostrato per la storia del diritto che il diritto e la vita non devono essere confusi, così è bene che anche diritto e medicina restino separati. La medicina ha il compito di curare le malattie secondo i princìpi che segue da secoli e che il giuramento di Ippocrate sancisce irrevocabilmente. Se, stringendo un patto necessariamente ambiguo e indeterminato con i governi, si pone invece in posizione di legislatore, non soltanto, come si è visto in Italia per la pandemia, ciò non conduce a risultati positivi sul piano della salute, ma può condurre a inaccettabili limitazioni delle libertà degli individui, rispetto alle quali le ragioni mediche possono offrire, come dovrebbe oggi essere per tutti evidente, il pretesto ideale per un controllo senza precedenti della vita sociale.
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Agamben ha raccolto in questo libro tutti i suoi interventi sull’emergenza sanitaria che stiamo attraversando. Al di là di denunce e descrizioni puntuali, i testi propongono in varia forma una riflessione sulla Grande Trasformazione in corso nelle democrazie occidentali. In nome della biosicurezza e della salute, il modello delle democrazie borghesi coi loro diritti, i loro parlamenti e le loro costituzioni sta ovunque cedendo il posto a un nuovo dispotismo in cui i cittadini sembrano accettare limitazioni delle libertà senza precedenti. Di qui l’urgenza della domanda che dà il titolo alla raccolta: a che punto siamo? Fino a quando saremo disposti a vivere in uno stato di eccezione che viene continuamente prolungato e di cui non si riesce a intravedere la fine?
- Avvertenza
- 1. L’invenzione di un’epidemia
- 2. Contagio
- 3. Chiarimenti
- 4. A che punto siamo?
- 5. Riflessioni sulla peste
- 6. L’epidemia mostra che lo stato di eccezione è diventato la regola
- 7. Distanziamento sociale
- 8. Una domanda
- 9. La nuda vita
- 10. Nuove riflessioni
- 11. Sul vero e sul falso
- 12. La medicina come religione
- 13. Biosicurezza e politica
- 14. Polemos epidemios
- 15. Requiem per gli studenti
- 16. Il diritto e la vita